La città collaborativa

“Collaborazione”; può definirsi partecipazione attiva al compimento di un’attività, ovviamente valutabile in vario modo e misura. Applicare il concetto alla sfera urbana amplia le significanze possibili, passando da quella che definiamo concertazione -l’assumere decisioni insieme- a quella dell’ascolto delle istanze, che può essere o solo formale (il caso più frequente) o conoscitivo, cioè il prendere realmente coscienza delle questioni in modo che esse siano di supporto e giustificazione al processo decisionale. Uno degli ambiti in cui si solito si auspicano processi di collaborazione è quello nel quale si compiono le scelte sul futuro della città, anche attraverso la sua programmazione urbanistica e già le leggi in vigore, sia pure in maniera delegata, implementano il processo attraverso la definizione di quelle che ancora oggi si chiamano “direttive generali “ al PRG e le cui valutazioni sono poste in capo alle assemblee cittadine, i Consigli Comunali. Già potrebbe sorgere il dilemma se la definizione di un piano urbanistico sia atto tecnico o politico; è, in qualche misura, ambedue le cose, nel senso che la tecnica è chiamata a dare una configurazione pratica e fattuale a quello che, senz’altro, è atto politico. Ma esso, per esser utile, deve far capo a scelte che investono questioni di strategia: visioni, in sostanza, di un futuro prossimo al quale una comunità vuol pervenire e che non può esser frutto di singole volontà ma deve prendere in considerazione, ad un tempo, bisogni e potenzialità, condizioni di partenza e di auspicabile arrivo considerando, come il tempo attuale impone, il benessere delle persone in armonia con gli equilibri dell’ambiente in cui vivono.

Sono gli aspetti nei quali la “collaborazione” e la concertazione trovano il loro humus, perché da esse può nascere la strategia di sviluppo proiettata ad un futuro auspicabile che, oggi, deve considerare ambiti più vasti, determinati da fenomeni come il cambiamento climatico, le modificazioni della struttura sociale e demografica, il recupero degli equilibri naturali in un’ottica di responsabilità che travalica il particolare locale. Risalta la questione, nel nostro ambito geografico, dell’adeguamento delle città già consolidate, che sono state caratterizzate sin qui dalla separazione delle funzioni, da una gestione dedita al consumo di suolo e risorse e che devono passare a cicli dove quello che una volta veniva considerato “rifiuto” deve trasformarsi in risorsa. Vale per le aree urbane come vale per i rifiuti in senso proprio: basti considerare come i rifiuti strettamente intesi abbiano modificato nel tempo la loro consistenza: se nel 1960 la parte compostabile era prevalente, ai giorni nostri essa si attesta al 30/40 % sul totale… Oppure l’emissione di gas climalteranti; per esempio quelli dovuti al traffico urbano perché, se negli anni ’60 vi era un’auto ogni 0,5 famiglie, ai giorni nostri siamo passati, in alcune città, a 1,05 auto per abitante.

E’ evidente, credo, come in un quadro come quello qui semplicisticamente descritto, gli standard urbanistici che ancora oggi in Italia sono vigenti siano del tutto inadeguati; nati per governare quantitativamente l’espansione continua delle città, oggi dovrebbero esser riorientati per favorire l’espansione delle connessioni, dei diritti e della qualità globale, anche quella della bellezza. E il riorientamento, forse, dovrebbe riguardare il trasferimento del concetto di valore dalla proprietà economica al vantaggio d’uso. Infatti il “valore economico” dell’immobiliare sta diventando sempre più condizionato e dipendente da fatti immateriali che dipendono da diversi elementi tra i quali -le agenzie immobiliari lo riscontrano sempre di più- quello del contesto globalmente inteso assume un peso sempre più importante. Una modificazione così drastica non potrà avvenire per atti impositivi; potrà svilupparsi solo attraverso una globale e responsabile presa di coscienza, ottenibile da una seria attività di informazione e sensibilizzazione, anche di condivisione, perché essa possa attuarsi senza generare fenomeni di rigetto, che ne rallenterebbero il processo.